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Mottainai, dare il giusto peso

Mottainai 勿体無い è un’espressione che resta impressa, forse perché suono e significato si rafforzano a vicenda. Si tratta del composto di mottai – il corpo delle cose, cioè il loro valore – e nai – non esserci – e rimanda all’insegnamento buddista sullo spreco che si fa delle cose quando  non si attribuisce loro il giusto valore. 

Non molto tempo fa, un amico mi porta a fare un giro per le shōtengai di Nishinari, un quartiere tanto affascinante quanto socialmente problematico, e resto colpita da un piccolo spaccio che sotto l’insegna もったいない (mottainai) rivende, a cifre modiche, cibi prossimi alla scadenza. In questa zona di Ōsaka, dove molti vivono del sussidio statale e portano sul viso i segni di una vita ai margini, la scelta del nome, mi sembra quanto mai pregna di senso. Del resto c’è chi, prima di me e a livelli ben più alti, ha notato la potenzialità del termine. È Wangari Maathi, premio Nobel per la pace. Nel 2005 la donna visita il Giappone e lancia la campagna ecologista MOTTAINAI, in collaborazione con il Mainichi Shinbun 毎日新聞 – uno dei maggiori quotidiani giapponesi. Sempre  nel 2005 la stessa Maathi, indossando una maglietta con la scritta “mottainai”, spiega all’ONU la valenza dello slogan: la parola infatti  racchiude l’idea delle 3R “ridurre, riutilizzare, riciclare” + 1 : “rispetto” e  gratitudine.

Oltre alla connotazione ambientalista che l’espressione ha assunto a livello mondiale, per me ha anche un valore sul piano personale. Non ho memoria di come e quando sia entrata nella mia vita – è così per la maggior parte dei vocaboli – ma ricordo perfettamente l’episodio in cui una vicina di casa, una signora sulla settantina, l’ha usata nei miei confronti. «Sei sposata?» mi domanda. «No», le rispondo, con l’animo di chi ha ancora tutta la vita davanti. In quel momento il suo sguardo si riempie di compassione e solidarietà, come a dirmi «coraggio», poi pronuncia il fatidico «mottainai», che spreco! Lì per lì mi viene un po’ da ridere, certo lo so che in Giappone la scadenza canonica per il matrimonio sono i trent’anni, ma cosa vuoi che sia? E invece, più il tempo scorre più mi vedo circondata da persone sole e comincio a credere che sia vero che la porta delle possibilità diventi strettissima, quasi una fessura, dopo una certa età. Domando a chi posso, agli studenti soprattutto. Mi dicono che intorno ai 26, 27 anni tua madre ti sussurra per la prima volta: «Facciamo un omiai», cioè un incontro organizzato, e che passerai i successivi anni sotto la pressione di zie, sorelle, madre e amiche. Compiuti i 36 però, nessuno ti dirà più nulla. Questa conclusione arriva come uno schiaffo. Come è possibile considerare vecchia una donna a soli 35, 36 anni? Per un po’ ci sto male, non per me stessa – credo che gli incontri prima o poi capitino – ma per le donne ingabbiate in questo tipo di mentalità, ragazze che non vogliono svelare la propria età o che arrivate ai trenta, barattano l’amore con il matrimonio.

foto di Kentaro Toma su unsplash.com

Eppure sento che in qualche modo il mio giudizio è fallace, che nel XXI secolo non è possibile che tutti diano ancora  importanza a una vecchia regola non scritta. E come sperato arriva il giorno in cui la prospettiva si ribalta. Anche in questo caso, come nel primo, avviene tramite le parole di una donna sulla settantina. Attacca bottone con me e altre due amiche al bancone di un piccolo ristorante: di dove siete, da quanto tempo siete qui  e insomma una domanda tira l’altra si arriva alla spinosa questione del matrimonio. Davanti al nostro «Siamo tutte single», l’arzilla signora ci rassicura: «Care ragazze, finché c’è vita c’è speranza! Ho perso mio marito, l’ amore della mia vita, alcuni anni fa, in quel periodo ero molto triste e uscivo per consolarmi. Una sera, nel locale in cui cenavo, è entrato un uomo, abbiamo cominciato a parlare e dopo un po’ abbiamo scoperto di aver perso i rispettivi coniugi  nello stesso giorno. È stato un incontro del destino. Adesso siamo inseparabili.» Le fa da controcanto la moglie dell’oste. «Anche io avevo ormai circa 38 anni, continuavo a guardarmi intorno, ma mi sentivo piuttosto abbattuta. Una sera sono venuta qui a mangiare e lui mi ha preso per la gola.» Suo marito abbassa gli occhi e arrossisce sorridendo. È un momento liberatorio e di complicità. È buffo, penso, che dall’altro lato del caseggiato abiti la persona che mi ha detto «ormai è tardi», mentre davanti a me ne ho un’altra, della stessa generazione, che la vede esattamente all’opposto. Il Giappone, mio Paese d’adozione, non mi appare più come un monolite, bensì come una realtà variegata fatta da strati generazionali, mentalità, scelte, convinzioni e interpretazioni diverse di come stare al mondo. Tutto diventa più fluido e naturale. Mottainai, da motto di consolazione diventa per me la parola che rappresenta un momento di svolta nell’avvicinamento e comprensione della società giapponese, uno sprone a vivere il tempo in modo fruttuoso, senza barricarmi dietro i pregiudizi e senza dimenticare di guardare a fondo le cose prima di giudicarle. 

Immagine di copertina Chris Barbalis su unsplash.com

4 pensieri su “Mottainai, dare il giusto peso”

  1. Molto bello lo svolgimento del tema Mattainai.
    Le convinzioni radicate nella mentalità popolare sono sicuramente difficili da cancellare e/o modificare a qualsiasi latitudine ma il tempo agisce come la goccia d’acqua e “cavat lapidem non vi sed saepe cadendo” o, meglio, “rapide currendo”.
    Anche ai giapponesi si attaglia bene il detto ” Non fare mai di tutta l’erba un fascio”. In ogni popolo ci sono sempre stati e ci saranno gli antesignani.

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    1. Esatto “non fare di tutta l’erba un fascio”. In Giappone l’integrazione è un processo lento, ci si incontra e scontra con dei codici comunicativi e un sistema di valori tanto diversi che rimanere aperti alla comprensione richiede pazienza e umiltà.

      Piace a 1 persona

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