Pellegrinaggio 88 Templi Settsu

Diario di un pellegrinaggio. Giorno7, parte 1

«Il nostro giro parte da qui.» Kuwaki sensei mi indica un grande ojizōsan お地蔵さん, una delle tante edicole votive che si incontrano lungo le strade del Giappone. Siamo all’ingresso di Hirano 平野, quartiere storico alla periferia Sud di Ōsaka, di cui lei è originaria. Qualche tempo fa le ho parlato del blog e si è offerta gentilmente di farmi da guida. «Sai», mi dice, «in tempi andati Hirano era una città indipendente, circondata da un fossato e protetta ai punti di accesso da statue ed edicole come questa; durante i matsuri venivano illuminate a festa e la gente si metteva in fila per pregare». A queste parole mi ritrovo all’improvviso in mezzo al brusio di una folla vestita in yukata e rischiarata dalle fiaccole. Ne sento il fruscio delle vesti, il calpestio dei piedi: è più forte di me, il Giappone mi porta a sognare ad occhi aperti. «Vieni, proseguiamo», mi risveglia la voce della sensei, e scivoliamo in bicicletta, in una sorta di corrente invisibile che lega insieme presente e passato.

Ingresso e padiglione centrale del Dainenbutsuji

Poco oltre, la strada curva e lascia intravedere due bambini che passeggiano da soli mano nella mano, quando li superiamo davanti ai nostri occhi si staglia un immenso tetto a falde verdi. «Wow, sembra dotato di due braccia che attraggono come magneti!» «Vero», mi dice la sensei, «si chiama Dainenbutsuji. Pensa che da bambina, prima che uscissi a giocare, mia nonna mi ripeteva sempre “se ti perdi cerca il tempio”». Non stento a crederci, questo padiglione doveva sembrare mastodontico in passato, specie a una piccola Kuwaki1. Riuscite a vederla anche voi? È una ragazzina che attraversa i campi con il sole che le tramonta alle spalle. «Se ti perdi cerca il tempio, se ti perdi cerca il tempio», si ripete e intanto si affretta, i geta che picchiettano il selciato. Ormai la conosco da cinque anni, fa l’insegnante di cucina e qualche volta mi permette di tenere delle lezioni alle sue allieve. Per età ed esperienza è sempre stata “la maestra”, ma adesso, immaginandola sotto questa luce, provo nei suoi confronti una grande tenerezza. La seguo nel recinto, i passi che crepitano sulla ghiaia, e insieme scompariamo minuscole nel ventre del padiglione. Dalle pareti pende un gigantesco juzu 数珠 che circonda tutta la sala. Che funzione può avere un rosario così grande? La mia guida mi informa che viene calato sul pavimento durante l’ojuzukuri お数珠くり— una celebrazione che si tiene il 16 di gennaio, maggio e settembre — quando i fedeli seduti per terra si raccolgono in preghiera attorno ai suoi grani.

Senkōji 全興寺, tempio n. 39

A cinque minuti di bicicletta dal Dainenbutsuji, nel cuore di Hirano, c’è una vecchia shōtengai. Nel tratto iniziale, su un telone sospeso, è disegnata una mappa del quartiere. Nel resto della galleria si susseguono botteghe dalle saracinesche arrugginite, cartelloni pubblicitari strappati, bandiere e fili che pendono dappertutto. Da queste parti si respira forte l’orgoglio identitario dei commercianti che hanno resistito una vita intera fra le vicende alterne degli affari e adesso sono diventati custodi di ricordi e tradizioni. Sotto le arcate troviamo anche l’ingresso rosso fuoco del Senkōji. Alcuni visitatori stanno fermi in fondo al cortile davanti a una statua di Fudomyō 2, la cospargono di acqua e poi giungono le mani in preghiera. Mi metto in fila per imitarli, ma la sensei mi richiama. «Ah, guarda qua! Questi erano i dagashiya 駄菓子屋, le botteghe dove ci fermavamo a comprare dolcetti e caramelle all’uscita da scuola.» E così dicendo mi conduce dentro una stanzetta, in un punto più intero dello stesso cortile, dove è allestita una mostra di giocattoli e miniature di negozi e abitazioni delle generazioni passate. Biglie, giochi di carte, foto, tutto è ricoperto dalla patina del tempo.

All’esterno c’è anche un vecchio telefono. Se si alza la cornetta si possono ascoltare le registrazioni delle  voci e dei suoni della Hirano antica. Avvicino il ricevitore all’orecchio e mi pervade una nostalgia pungente, come se fossi  appartenuta a questo passato — o forse provo nostalgia per qualcosa che non ho mai vissuto e che adesso è perduto in parte, o del tutto, per sempre. Nel cortile accanto intanto un gruppetto di ragazzini si sfida con le trottole. Sembrano abbastanza esperti. Che meraviglia, penso: il comitato di gestione deve aver previsto uno spazio dove fare sperimentare ai bambini i giochi dei loro nonni.

«Vuoi fare il percorso didattico?» Mi domanda la sensei. 

Il recinto del Senkōji , come spiega il volantino della reception, è organizzato in un’esperienza conoscitiva in otto tappe, un piccolo tour pensato forse per i piccoli : 

  1. recarsi  al padiglione centrale e salutare lo Yakushinyorai 薬師如来, il buddha della medicina
  2. visitare l’inferno
  3. infilare la testa nel foro di una pietra per ascoltare il suono degli inferi
  4. ammonticchiare i sassi e costruire una scala per il paradiso, in aiuto alle anime dei defunti
  5. immortalarsi in un selfie mentre si congiunge la mano con Hotoke sama 仏様 (Buddha) tramite un filo luminoso (il cavalletto per la foto è incluso nell’allestimento della tappa)
  6. visitare il mistico paese degli Hotoke, uno spazio di meditazione sotterraneo legato al pellegrinaggio agli 88 templi dello Shikoku.
  7. pregare davanti alla statua  di Fudomyo
  8. andare alla reception e fare shopping

Ci mettiamo in cammino. Fatta la preghiera al padiglione centrale — tappa 1 — entriamo nella sala degli inferi, un  cubicolo buio con statue di mostri in cartapesta, tra cui troneggia Enma 閻魔, il re del sottosuolo. Suonando il gong si può apprendere il destino delle anime attraverso un video che naturalmente esorta a scampare le severe pene dell’aldilà seguendo i precetti del buddismo. Una tappa dopo l’altra, come un’eroina dantesca, immagino personaggi, racconti, storie di beatitudine e perdizione. Alla tappa n. 6, una sorta di cripta rischiarata da un mandala sul pavimento retroilluminato, nel mio rapimento mistico non mi accorgo che fra me e le effigi lungo i muri ci sono diversi centimetri di acqua. Faccio un passo per avvicinarmi e cado in ginocchio, immersa mani e piedi. Io e la sensei torniamo in  superficie appoggiandoci l’una all’altra ridendo. Nonostante sia decisamente fradicia, non ne voglio sapere di andare via  e concludiamo il tour con me che semino scie d’acqua. 

UNA PAUSA AL KANMIDOKORO 甘味処

Dopo il bagno indesiderato andiamo da Baigetsudō 梅月堂. La visita ai kanmidokoro, le pasticcerie di dolci tradizionali, è uno dei piaceri della vita in Giappone — meglio ancora se il negozio è un po’ antico, come quello in cui ci troviamo ora, con le assi di legno imbrunite, le vetrinette rétro e una scelta di dolcetti lavorati a mano in splendide forme floreali. Scelgo un manjū 饅頭 e mi siedo ad asciugarmi al calduccio della stufa a gas. Il rivestimento esterno, addolcito dalla castagna bollita, si scioglie in bocca3. Mangio assorta, un boccone dopo l’altro, stanca, ma felice. «Va meglio? Dove andiamo dopo?» Ci sono ancora due templi del pellegrinaggio sulla mappa, ma lungo la strada si trova anche un piccolo museo della spada. Incuriosite decidiamo di fare una piccola deviazione.

つづく…. Continua…

NOTE PER I CURIOSI

  1. Il Dainenbutsuji è la sede centrale della scuola Yuzunembutsu 融通念佛宗, corrente buddista nata nella seconda metà del periodo Heian (794 -1185). Il padiglione centrale è largo 50 metri e lungo 40 ed è la struttura lignea più grande di tutta la prefettura di Ōsaka. Il tempio è noto per il Manbu Oneri 万部おねり, che si tiene dal 1 al 5 maggio. Nel rito sono coinvolti in processione 100 fra adulti e bambini seguiti da 25 monaci che procedono al suono dell’antica musica gagaku 雅楽, con indosso maschere dorate e vestiti dai colori sgargianti. Successivamente, i monaci in abiti da bodhisattva, fanno offerte rituali di fiori e i fedeli uniscono le mani per pregare per i loro antenati. Il Manbu Oneri è stato designato proprietà culturale immateriale della città di Ōsaka nel 2002.
  1. Ho già accennato alla figura di Fudomyō, qui (vedi tempio n.21) e qui.
  1. I manjū sono dolcetti sferici ripieni solitamente di hanko, una crema fatta da fagioli azuki zuccherati e bolliti. L’esterno è a base di farina di grano o altra farina. Nei kanmidokoro si possono gustare anche altri tipi di dolcetti a base di mochi 餅 che si prepara invece pestando il riso glutinoso, fino ad ottenere una pasta bianca, morbida ed appiccicosa che viene poi modellata in forme sferiche o rettangolari.

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