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Umigame 海亀

A ogni rientro ritrovo in Ōsaka lo specchio fedele delle mie emozioni.

Se mi avvicino alla città dall’aeroporto del Kansai, via via che dai finestrini riconosco i quartieri, mi sento pervasa dal calore del ritorno a casa e in vista dei grattacieli di Umeda mi emoziono sempre un po’. Intanto trattengo il fiato per il gran finale, il tetto ondulato della stazione centrale che spunta all’improvviso all’orizzonte – immenso scivolo da cui mi lancio per una nuova avventura. Quando torno da Tōkyō, invece, Ōsaka mi pare un paesone di provincia, ingiallito e imbrunito dallo smog. Le persone che lo attraversano più che camminare ondeggiano e si vestono di un’eleganza che resta e resterà sempre un passo indietro a quelli della capitale. Quando torno dalla campagna, la città  mi appare sconfinata. E quando, qualche giorno fa, sono rientrata dall’isola di Miyakojima 宮古島, per la prima volta ho pensato che Ōsaka fosse una creatura innaturale. Dopo un weekend alle soglie del Tropico del Cancro a rimirare le scogliere sull’oceano e la fauna del Pacifico, il condensato di acciaio e cemento della metropoli mi è parso un ingranaggio senza cuore e senza respiro, dentro cui la gente corre all’impazzata. E corre perché non sa della tartaruga.

Isola di Miyakojima, veduta aerea

Neanche io prima sapevo della tartaruga, ma ora tutto è diverso.

Quando la vedo sono alla mia seconda esperienza subacquea – dopo che l’anno scorso ho passato quasi tutta la lezione a litigare con la respirazione dal boccaglio e sono scesa giusto di qualche metro sotto la superficie dell’acqua. Sulle spalle ho un bel fagotto, e non sto parlando della bombola per l’ossigeno, che di per sé certo ha il suo peso, ma del carico di preoccupazioni nelle quali mi sono avviluppata: il virus, il lavoro, la famiglia lontana, le scelte da compiere, le priorità da dare. Una litania di zavorre che mi fa camminare con il passo affrettato come tutti gli altri.

Pesce damigella (probabilmente un Pomacentrus fakfakensis)

Anche quest’anno l’inizio dell’immersione non è stato facile. La maschera faceva pressione sul naso e mi sono sentita soffocare. Istintivamente ho tirato su con le narici e ho imbarcato acqua. Sono risalita in superficie una prima, una seconda e una terza volta prima di abituarmi e per un po’ l’unica cosa che ho potuto fare è stata rimanere ferma in un punto ad adocchiare qualche pesce. Nuotava a suo agio fra i coralli. “Adattamento” ho pensato, in uno di quei guizzi di consapevolezza che ti arrivano quando è il corpo a insegnarti le cose e non la teoria. Poi, ancora presa fra la paura di inalare acqua e l’emozione per la presenza di una miriade di forme di vita sconosciute, ho sollevato la testa e mi sono abbandonata alla contemplazione.

Pesci della famiglia degli pseudochromidae

La prima cosa che posso dire sono i colori e le forme. Piccole sagome affusolate azzurre e blu fluorescente che si muovono a scatti intorno ai rami dei coralli, pesci grandi come una mano, neri, ma con le squame di un blu iridescente, pesci di un bianco opalescente, striati di nero. Pesci pagliaccio fra le quinte degli anemoni, un Rhinecanthus aculeatus (comunemente detto Balestra Picasso), con pennellate blu e gialle, pesci farfalla gialli come pappagallini. «Che importa il nome? Chiama la rosa con altro nome: avrà men dolce odore?»1 Eppure com’è bello adesso fare riecheggiare insieme l’immagine e il suo suono.

Altri pesci damigella blu e striati

Più in là uno strano pesce col muso giallino e le squame che sembrano una calza a rete, grosso, con l’aria intontita, ma i denti aguzzi, ci studia come volesse attaccarci2. Scalcio per allontanarlo e finalmente i muscoli si sciolgono.

Esemplare di pesce balestra titano (Balistoides viridescens)

Iniziamo a nuotare a filo del fondale dove ci sono coralli panciuti violetti o bruni, porosi e piacevolmente ruvidi. Si sporge dalla tana una murena quel tanto che basta perché la luce che filtra la accechi e spalanchi la bocca minacciosa. L’istruttore mi fa segno per domandare se l’ho vista; gli sorrido come posso da dietro la maschera e metto le mani a forma di cuore. In quel punto, alla nostra destra, si apre una fossa dove l’acqua diventava più fitta e più azzurra, piena di pesci che guizzano come specchietti iridescenti. Scendiamo ancora, quasi a testa in giù, col suono regolare del respiro nelle orecchie e nello sciabordio dell’oceano uno sfrigolare leggero di bollicine che scoppiettano. Ancora rocce, sabbia e prati marroncini di Padina pavonica, un’alga che si apre come sfoglie di matita temperata. Una miriade di pesci, qua un lumacone marino che mi ricorda un salsicciotto paraspifferi, là una Blenniella chrysospilos, che ci guarda, un po’ rospo un po’ pesce, adagiata sul fondale. Silenzio eppure musica. Timore dell’ignoto eppure gioia.

Ci fermiamo, l’istruttore ci sta indicando nuovamente qualcosa. Mi avvicino. E vedo. Vedo quello che non mi aspetto di vedere, quello a cui non sono preparata:  una umigame 海亀, una tartaruga marina. Esiste, penso. Esiste non sui libri e nei documentari. Esiste non in un acquario. Esiste davanti ai miei occhi, lunga circa un metro e mezzo e larga poco meno; il carapace colore del fondale e pinne e testa a placche scure. Il primo istinto è spalancare la bocca e emettere un grido, ma il boccaglio me lo impedisce. L’emozione mi rimbalza in petto e poi di sponda raggiunge gli occhi. Mi sputano le lacrime, ma le trattengo per paura che si appanni la maschera. Non posso fare altro che rimanere immobile. E in quel momento quella davanti a me non è più solo la tartaruga che abita nei fondali dell’isola di Miyakojima, ma è tutte le tartarughe. Una divinità senza tempo, stabile e immobile. È la tartaruga che regge il mondo3. È l’oceano che esiste in parallelo alla mia esistenza sulla terra e che se ne infischia del Corona, del lavoro, della famiglia lontana. È un’epifania, un ritorno alla presenza  nel momento della vita, senza rimpianti del prima e gli affanni del dopo. È un ricordo eterno durato una manciata di secondi prima che l’animale scivoli lontano da noi mortali, muovendo le pinne come ali, grande e leggerissima. 

Fondali della spiaggia di Aragusuku 新城海岸, isola di Miyakojima

Passeggio di nuovo per le strade di Ōsaka e torno con la mente alla tartaruga, poi alle tartarughe che dimorano nel recinto dello Shittenōji, simbolo di longevità, alle preghiere lavate nel pozzo della tartaruga, fino alla tartarughina che ho visto da bambina scorrazzare sulla terrazza dei cugini. Me la immagino da sempre stabile nel suo centro, anche nelle tempeste dell’ oceano, mentre io tremavo al vento. È tempo di imparare la sua lezione. Si chiude un cerchio. Si riparte da qui.

Tramonto sulla Painagama Beach パイナガマビーチ

1. La frase è presa da “L’isola di Arturo” di Elsa Morante.

2. Si trattava di un pesce balestra titano, (Balistoides viridescens), si nutre di ricci di mare, crostacei e polipi dei coralli. Noto per la sua territorialità, diventa aggressivo se disturbato.

3. Quella della tartaruga che regge il mondo è una leggenda presente presso i nativi americani e nelle tradizioni cinese e indù. In quest’ultima in particolare il mondo  è retto da un elefante che poggia a sua volta sul dorso di una tartaruga.

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