Pellegrinaggio 88 Templi Settsu

Diario di un pellegrinaggio. Giorno 2, parte 2

Shitennōji 四天王寺,  tempio n. 25. Sulle tracce del principe Shōtoku. 

Allo Shittenōji sono legata da ricordi che si sono sommati e forse un po’ mescolati una visita dopo l’altra. Quando passo da queste parti si mettono a galleggiare come paperelle in fila sull’acqua e non c’è modo che li possa fermare: una notte di agosto alla “commemorazione delle diecimila lanterne”; le preghiere sulle strisce di carta immerse nel pozzo della tartaruga1; una festa di Tanabata2 e il desiderio appeso ai rametti di bambù, mai realizzato; un freddissimo 21 novembre al mercatino delle pulci3. Credo dipenda dal fatto che mi sono abituata alla sua presenza e che in un certo senso me ne sento protetta. In fondo ogni luogo è carico di significati a seconda degli occhi che lo guardano.

Nel 593 d. C. il principe Shōtoku Taishi dedicò agli Shitennō – i “quattro re celesti” protettori delle direzioni e della nazione – una pagoda a cinque piani e due padiglioni, con l’intento di farne il simbolo della nuova religione di Stato, il buddismo. Il principe divenne a sua volta simbolo della svolta storica del Giappone verso il nuovo culto e intorno alla sua figura sorsero leggende, tra cui l’immacolata concezione della genitrice, che lo resero un vero e proprio santo4, forse perché, come dice Massimo Raveri, la nascente religione aveva bisogno di una figura costituente5

Il portale di pietra Ishi no torii 石ノ鳥居 con, nell’inquadratura, il portale ligneo Gokurakumon 極楽門 e la pagoda a 5 piani

Allo Shitennōji insomma si cammina sospesi fra il mito e la storia, fra padiglioni antichi ed edifici che sono la ricostruzione di quelli distrutti dagli incendi, dai tifoni, dalle bombe. Quando vengo qui seguo un rituale personale: entro dall’Ishi no torii 石ノ鳥居, “il portale di pietra”, che secondo la targa è l’ingresso Est del Paradiso, e mi incammino verso il portale successivo, che è invece ingresso del Gokuraku 極楽, cioè il Paradiso dell’Ovest dove abita il Buddha Amida. Si dice che passando attraverso entrambi i cancelli le possibilità di spezzare il ciclo delle reincarnazioni e rinascere al cospetto dell’illuminato aumentino. Concludo il rito girando la ruota del Dharma6 per il puro piacere che mi dà il contatto tattile con ciò che mi circonda. Poi, a seconda del momento, procedo fino al recinto della pagoda, o vado a sinistra verso il laghetto delle tartarughe.

 

Ruota del Dharma. Foto da ICOICO Osaka

Oggi però scelgo un percorso alternativo, perché sono venuta da pellegrina. In uno dei negozi di articoli sacri lungo strada del tempio mi regalo un  nuovo diario per collezionare le firme dei santuari, poi  vado all’ingresso più a Nord-Ovest, il piccolo Inui-Mon 乾門, che custodisce il cimitero. Cosa mi aspetta? Non ne ho idea. Con tutto il sentire che si accavalla all’aura di mito volutamente costruita intorno alla figura del principe Shōtoku, mi pare di essere giunta all’apice del cammino troppo presto. Forse avrei dovuto lasciare lo Shitennōji per ultimo. Forse. Ma ormai sono qui, e la voglia di varcare la soglia supera tutto il resto. 

L’Inui-mon 乾門, l’ingresso più a Nord-Ovest del complesso. Nell’inquadratura della porta il Ganzandaishi-dō

Il cortile del cimitero si estende per diversi metri davanti e dietro il padiglione che sta in fondo al viale. Su entrambi i lati le lapidi vecchie si alternano a quelle più recenti, mentre il sole scolpisce la continuità fra l’esserci e il “non esserci più” in modo netto, evidente, naturale, inevitabile. Non ho nessun legame di sangue con le persone sepolte qui, eppure vorrei poter dialogare con coloro che riposano: chi erano, come hanno vissuto, che facce avrebbero fatto vedendo una straniera aggirarsi in casa loro? Immersa in questi pensieri arrivo all’edificio che si vede dall’entrata. Davanti ai gradini del padiglione c’è un grande cerchio di paglia intrecciato. Ne ho trovato uno simile al santuario di Nikkō, vicino Tōkyō, bisogna passarci dentro e girarci intorno un numero di volte prestabilito per propiziarsi la buona sorte, ma per pigrizia salto il rito e guardo invece verso l’alto. Le tegole del tetto, sormontate da due pinnacoli di drago, virano verso un colore grigio ruggine che mi fa provare una stretta al cuore. È come se possedessero qualcosa di inafferrabile, se ne stanno zitte, come tutti gli oggetti, unico indizio del tempo trascorso su di loro questa traccia cromatica: mi sento sopraffatta, incapace di raccontare.

Copertina di un goshuincho ご朱印帳, il diario per raccogliere il timbro e la firma calligrafa dei templi

Poi mi ricordo che devo avere pazienza, perché svelare ciò che sta sotto le tracce della storia è anche quello un fatto di tempo e di accumulo di conoscenze. Così salgo i gradini del padiglione e rispondo al saluto cordiale dell’inserviente: «Buongiorno a lei. È bellissimo qui, sono stata allo Shitennōji tante volte, ma mai in questa parte del complesso.» «Vede qui non si viene per pregare i morti, ma per la buona sorte, il superamento di un esame, la guarigione, un buon matrimonio.» «E il cimitero?» «Ah, quello? Appartiene alle famiglie della zona, è improbabile che gli estranei possano entrarci.» Nel sentirlo mi immagino invece a riposare proprio qui un giorno, dove mi si dice che è impossibile avvenga. «Ultimamente ho iniziato il cammino degli 88 templi di Settsu e sto leggendo molto sul buddismo, ma ci sono ancora tantissime cose che non capisco.» Alle mie  parole la gentile signora si alza e mi illustra brevemente le  statue disposte nelle nicchie. Quella centrale, dietro l’immancabile Fudōsan, è Ganzandaishi 元三大師. «Sa cosa sono gli omikuji?» Rispondo di si, sono i biglietti contenenti l’oracolo divino che si estrae al tempio. Ce ne sono dodici, dalla Grande Benedizione alla Grande Maledizione, e se la sorte non è buona si legano nel tempio ai rami di un pino o su appositi supporti. «Esatto, è lui che li ha inventati!» dice la signora, «il padiglione porta il suo nome, Ganzandaishi-dō e risale al 1600.»

Omikuji appesi in un tempio scintoista

«A sinistra invece c’è Fugen-san, sulla schiena dell’elefante, e a destra Monju-san.» Chi sono costoro? Lo ignoro, ma ripeto i loro nomi tre o quattro volte per memorizzarli. Il Giappone, in alcuni suoi aspetti, continua a essere avvolto da una cortina di mistero, perciò sono immensamente grata a questa sconosciuta per averne illuminato una parte, seppure piccola7. La saluto con tanti inchini e lei, prima di accomiatarsi, mi invita a tornare: «Siamo aperti tutto l’ anno, dalla mattina presto fino a tardi!»

Padiglione dedicato a Daikokuten

Il recinto dello Shitennōji ricopre 110.000 m2, vale a dire 15 campi da calcio. Visitarlo, o rivisitarlo nel dettaglio, richiede forse due o tre ore. Oggi non dispongo di tutto il tempo necessario perciò, prima di andare a ricevere il goshuin (il timbro del tempio), vado a vedere solo i due edifici adiacenti. Il primo è dedicato a un Daikokuten 大黒天 dai tre volti. Da una rapida ricerca in rete risulta che questa versione di uno dei “sette dei della fortuna”8, è legata a Shiva, il dio indiano della guerra. Sarà, ma le numerose decorazioni di ravanelli che compaiono qua e là, mi ricordano più la sua associazione alla cucina che non alle imprese belliche. 

Il secondo e ultimo edificio del mio peregrinare è l’ Eireidō 英霊堂, uno dei più grandi campanili del Giappone. La campana che costudiva è stata rimossa dopo la Seconda guerra mondiale per lasciare posto a un’altrettanto immensa statua dorata di Amida. Tiene le mani in una delle raigō-in 来迎印, le mudrā dell’ accoglienza, con le quali indica alle anime in quale livello del Paradiso della Terra Pura entreranno9. Non so descrivere il fascino che decodificare questi misteri esercita su di me. 

Amida Nyorai con le mani nella gebon jōshō 下品上生 che corrisponde a uno dei livelli d’ingresso del Paradiso della Terra Pura, foto di Mark Schumacher su
www.onmarkproductions.com    

Concludo la passeggiata con un’immancabile tazza di tè e un dolcino a “Le Paysan”, un grazioso caffè con l’immagine di due orsi su un’insegna in legno. La proprietaria mi parla come se fossi una bambina, in una lingua che è un misto  di parole inglesi disposte a casaccio e di un giapponese scandito lentamente. Capita spesso, ma non me la prendo più come facevo un tempo.

つづく…. Continua…

NOTE

1. La mandōkuyō 万灯供養, “commemorazione delle diecimila lanterne”, si svolge nella seconda settimana di agosto, periodo dell’obon お盆, quando si pensa che le anime dei defunti tornino alle loro case. Il cammino degli antenati viene allora agevolato dalle lanterne accese. Allo Shitennōji è possibile prenotare una commemorazione dei propri cari durante la quale verrà letto una sūtra, si brucerà dell’incenso e si laverà una preghiera scritta su di un foglio, immergendola in una vasca alimentata da una bocca di tartaruga in pietra che sbuca al di sotto del Kamei-dō 亀井堂, cioè il “padiglione del pozzo della tartaruga”.

2. Tanabata forse è una delle feste tradizionali giapponesi più note anche in Occidente. Cade il 7 luglio, secondo il calendario tradizionale, e celebra il ricongiungimento delle due divinità Orihime, la tessitrice celeste (Vega) e Hikoboshi il pastore (Altair). Nella leggenda il padre di Orihime li divise ponendo fra loro l’Ama no gawa 天の川, il fiume divino ( la nostra Via Lattea), perché per stare insieme avevano trascurato i propri doveri. In seguito lo stesso padre, commosso dall’amore dei due, concesse loro di rivedersi una volta all’anno, il settimo giorno del settimo mese lunare. A Tanabata, e nei giorni che precedono la festività, si esprimono desideri e preghiere trascrivendoli sui tanzaku 短冊, strisce di carta da appendere ai rami di bambù.

3. Per l’esattezza il mercatino delle pulci si svolge nel recinto del tempio ogni 21 e 22 del mese. Le date indicano rispettivamente la morte del monaco Kūkai (fondatore della scuola del buddismo esoterico in Giappone) e del principe Shōtoku. In questi due giorni è consentito l’accesso ad alcuni edifici normalmente chiusi al pubblico.

4. La più grande cerimonia del tempio è la Shōryoe no bugaku che si svolge ogni anno il 22 di aprile e celebra l’anniversario della morte del principe con un rito che mescola la danza tradizionale bugaku 舞楽 alla cerimonia commemorativa buddista.

5. Per chi volesse approfondire, la frase è tratta da Il pensiero giapponese classico di Massimo  Raveri, edito da Einaudi.

6. La dharmacakra, o ruota del ”Dharma”, cioè ”la legge universale che regola l’intera realtà”, è il simbolo della religione buddista. Fa riferimento al sermone pronunciato da Buddha Śākyamuni (il fondatore storico del buddhismo) nel Parco dei Cervi, vicino Vārānāsi (India), in cui rivelò ai discepoli le quattro nobili verità (cioè l’origine della sofferenza degli esseri viventi e il modo di superarla), mettendo così in moto la ruota della legge. Fatta girare essa colpisce simbolicamente gli ostacoli, gli errori e gli attaccamenti che impediscono all’uomo di raggiungere il Nirvāna.

7. Se siete curiosi come me, dopo essere stati in giro fate ricerche in lungo e in largo. Ebbene Fugen-san e Munju-san  sono i discepoli che compaiono accanto a Buddha Śākyamuni nel Sūtra del loto, uno degli scritti attraverso cui il buddismo penetrò in Giappone. Nell’iconografia Fugen-san di solito appare alla destra del Buddha su un elefante bianco, che simboleggia il superamento delle difficoltà. Come sono connessi Fugen e Munju a Ganzandaishi? Si dà il caso che la scuola buddista Tendai fece del Sūtra del loto il proprio testo chiave e che Ganzandaishi fu  il monaco fautore del restauro dell’Enryaku-ji, il tempio sede centrale della setta. Di lui si dice sia stato anche l’inventore degli omikuji おみくじ. 

8. Dei sette dei della fortuna parlo brevemente in questo articolo (tempio n.1).

9. I livelli del Paradiso della Terra Pura sono tre, divisi a loro volta in tre sottolivelli. Perciò le mudrā raigōin ( le posizioni simboliche delle mani che esprimono accoglienza) legate al Buddha Amida sono nove e a ognuna corrisponde un grado diverso di ingresso in paradiso. Nella statua di cui parlo in questo articolo, Amida tiene le mani nella gebon jōshō 下品上生 che indica il gradino inferiore del livello più alto. In questa posizione la mano destra è rivolta verso l’alto e la sinistra verso il basso, i palmi sono visibili, mentre pollici e indici si toccano formando un cerchio.

INFORMAZIONI PRATICHE ESSENZIALI

Come sempre lascio qui il link alla mappa del pellegrinaggio. Il sito è solo in lingua giapponese.

Raggiungere lo Shitennōji è molto agevole. Scendete alla fermata Shitennōji-mae Yuhigaoka della linea viola (Tanimachi-sen), uscita 4. In alternativa scendete alla fermata Tennōji (linee JR, Midosuji-sen, Tanimachi-sen e Kintetsu) e camminando per una decina di minuti verso Nord incontrerete il complesso. Se volte seguire il percorso che ho fatto in questa seconda giornata di pellegrinaggio, uscite dallo Shinkōin (tempio n. 24)  e proseguite a destra, appena vi è possibile attraversate la strada e continuate nella stessa direzione (cioè verso il grande grattacielo che si vede in fondo alla strada, l’Abeno Harukas). Dopo pochi minuti, incontrerete l’uscita numero 4 della metropolitana e davanti a voi una strada più piccola che corre parallela alla principale (Tanimachi-suji). Imboccate questa stradina e percorrendola troverete alla vostra sinistra gli ingressi del tempio, il primo è l’Inui-mon, l’ultimo l’Ishi no torii.

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