Prendete un intrico di strade strette e umide dove la luce entra appena, schiene di サラリーマン (salaryman, impiegati) a scolarsi birre, voci stentoree a urlare ordinazioni, sorrisi energici come mani a servire piatti e bevande a raffica. Siete nel ventre di Ōsaka, nella fitta rete di shōtengai, strade e seminterrati che serpeggiano compressi fra le arterie principiali, invisibili finché non ci inciampate e ne scoprite la vitalità. Porte sbilenche, scale imbrattate, lampioncini strappati che conducono a locali fatiscenti, passaggi segreti ai mille universi della città: Ōsaka vive nel formicaio delle sue strade laterali, e mentre Umeda si muove elegante, il popolo si nutre nelle viscere della metropoli.

La facciata chic e quella popolare stanno l’una nell’altra come un’immagine olografica, congiunte da alcuni luoghi-cerniera. Dotombori, ad esempio, affollata fino allo spasmo e anteprima dei fumi appiccicosi delle retrovie, ma ancora troppo turistica ( Ridley Scott ci vide l’ambientazione perfetta per una delle scene di Black Rain 1). Lo spirito della città risiede un po’ oltre, nelle pieghe di ciò che si vede ad occhio nudo: a Tennōji nelle stradine dietro i negozi di souvenir, a Tenma nel dedalo di cibarie e tendoni ingialliti, al mercato coperto di Tsuruhashi, dove di giorno l’odore del kimchi2 regna sovrano e la sera aleggiano gli sbuffi degli hormon3 grigliati.



Girando per queste strade, ci si domanda come certi locali possano avere la licenza e come altri invece facciano a sopravvivere, tanto sono piccoli. Eppure stanno lì, ancorati alla tradizione della piccola, a volte minuscola borghesia commerciale, operosa, numerosa. Il vecchiume, l’allestimento approssimativo e l’accumulo di suppellettili e bottiglie vuote dicono dell’intensità del lavoro: semplicemente non c’è tempo per curare i dettagli, perché giorno dopo giorno i clienti sono un fiume in piena. La domenica i locali si affollano di ragazze graziose e ben vestite e giovani fighetti, nessuno si tira indietro davanti a un po’ di sporcizia, ciò che conta è la qualità del cibo e si sa, dove non ci sono fronzoli, il mangiare è buono. Di Shinsekai, quartier generale dei kushikatsu4, si dice “umai, yasui, hayai” (economico, buono e veloce), ma è una filosofia che si estende ben oltre i confini del “nuovo mondo”5, perché gli abitanti di Ōsaka sono esigenti in fatto di qualità e prezzi e gradiscono l’informalità, ingrediente che scorre in abbondanza nelle vene della città. La cordialità spiccia fa parte del servizio e non può mancare!

Nel 2005 faccio il mio primo incontro con Ōsaka. Dopo mesi di colloqui ottengo finalmente un lavoro in Giappone e mi trasferisco entusiasta con un’idea tutta teorica dei giapponesi, popolo dalla misurata e consapevole eleganza, timido, reticente. L’impatto con la kuidaorenomachi è travolgente. Vengo ipnotizzata dalla parata di cartelli, volantini e mercanzie, a tratti temo la perforazione dei timpani per le urla dei buttadentro dei negozi e allo stesso tempo provo un senso di liberazione. Credo sia questo il motivo per cui scatta un’affinità immediata, mi sembra di essere al mercato rionale in cui da bambina andavo con mia madre: le urla dei pescivendoli e dei verdurai che squarciavano l’aria all’improvviso, la gente energica, fisicamente provata, ma laboriosa.
Diversi anni dopo, la mia prima notte a Ōsaka in seguito a un lungo allontanamento, io e l’amico con cui sono partita decidiamo di fare una passeggiata per superare il jet lag. Sulla strada di casa vediamo una lanterna che fa capolino da un vicolo della shōtengai. Sembra un locale piuttosto dimesso e ci pare strano che qualcuno faccia da mangiare alle due di notte, ma non avendo alternative migliori, entriamo. Ci troviamo in una stanzetta con la cucina a vista, qualche seduta al banco rivestita da cuscini sgualciti, due tavolacci accostati alle pareti, cassette e riviste impilate, tv accesa e un odore denso, stantio. Per via della mancanza di spazio il titolare, gli avventori e l’arredo sembrano un tutt’uno. Scoprirò in seguito che il minuscolo izakaya6 si chiama Kura, ma per quella sera lo ribattezzo semplicemente “la bettola number one”.

Giunti per caso in questo clima da vecchio bar dello sport, esitiamo un istante sulla soglia, ma l’oste, un tipo tarchiato sulla settantina, ci fissa stupito come a dire: «Allora entrate o no?» Sono frazioni di secondo e già gli altri clienti ci fanno spazio incuriositi, includendoci nella loro cerchia (in base agli stereotipi è come se fossimo a parti invertite: noi timidi, loro immediatamente espansivi). Capirò nel tempo che nei posti di ristorazione a conduzione familiare, o gestiti dal singolo, funziona così, ci vai per chiacchierare con il マスター (mastā)7 e con i clienti mentre mangi, non per consumare un pasto in silenzio (delle conversazioni incredibili che mi sono capitate a Ōsaka dirò in un’altra occasione). Intanto, confusi dalla stanchezza, finiamo per fare la meno originale delle ordinazioni: sushi e tempura. L’oste si mette subito in moto laborioso, taglia, impiatta e serve accompagnando il servizio con un urlo baritonale che ci fa sobbalzare e poi ridere. Il primo boccone è sorprendente, il pesce freschissimo, esaltato dal wasabi, sprigiona un sapore eccezionale. Date le condizioni del locale mi aspettavo una cucina passabile, ma questo sushi è una delizia. Insieme a un altro urlo arriva anche la tempura (seguono spavento e risata) che, inutile dirlo, si rivela altrettanto gustosa. La stanchezza ha cancellato il ricordo del resto di quella notte, mi resta solo un’ immagine vaga di noi che pian piano scivoliamo negli sgabelli e nelle chiacchiere, parlando di chissà cosa. Mesi dopo la padrona di casa mi porterà a stuzzicare qualcosa in un posto «famoso nel quartiere per la freschezza degli ingredienti». Con mia sorpresa sarà proprio la bettola della prima notte, la simpatica catapecchia che ho classificato erroneamente come luogo sconosciuto ai più.

Se lo spirito commerciale di Ōsaka è rimasto immutato nei secoli, l’aspetto della città cambia lentamente. La zona di Umeda si esapande e i nuovi locali sostituiscono quelli vecchi, conferendo ai quartieri un’aria meno popolare. Qualcuno dei posti a cui ero affezionata non c’è più, il minuscolo caffè-gelateria dell’angolo, dove ho mangiato il parfait al matcha più buono di sempre, ha chiuso, e così chissà quanti altri. Un sogno che ogni tanto accarezzo è quello di prendere un anno sabbatico per visitare ciascuna delle infinitesimali locande della città, assaggiarne le prelibatezze e assorbire per osmosi l’Ōsaka-ben8… prima che tutto cambi.
1. Devo la conoscenza di questo dettaglio al video postato qui.
2. Il kimchi (キムチ) è un piatto tradizionale coreano, fatto di verdure fermentate con spezie.
3. Hormon (ホルモン) nel dialetto locale si riferisce alle interiora cotte alla griglia, una tipica prelibatezza di Osaka. Letteralmente vuol dire “cose da buttare” (da horu ほる, buttare e mon, contrazione di mono物, cosa) .
4. I kushikatsu (串カツ) sono spiedini di verdure, pesce o carne fritti.
5. Shinsekai (新世界), letteralmente “nuovo mondo”, è un quartiere che si estende fra lo zoo di Tennoji e la stazione di Shiimamiya. Si è sviluppato a partire dal 1903 e negli anni è decaduto fino a diventare una zona malfamata. In realtà, se confrontato a certi quartieri italiani, il livello di pericolosità è molto basso e si può girare in sicuezza nella zona, che regala scorci della Osaka popolare descritta in questo articolo.
6. L‘izakaya (居酒屋, cioè 居 sedersi , 酒 sakè e 屋 negozio) è un sorta di osteria in cui si servono bevande accompagnate da cibo locale. Gli izakaya che non appartengono alle catene di ristorazione si riconoscono per le lanterne rosse di carta, appese all’ingresso.
7. Il マスター, pronunciato mastā (con l’allungamento) dall’ingelse master, è il titolare o il gestore di un locale.
8. L’ Ōsaka-ben (大阪弁) è il dialetto di Ōsaka.