Nel momento in cui ho scritto questo articolo, mi mancavano alcune informazioni importanti. Il discorso si è sviluppato intorno alla supposizione, rivelatasi errata, che le statue d’arredo della Midōsuji fossero tutte o in parte delle riproduzioni1. Tuttavia, poiché credo che gli stati d’animo descritti trasmettano in modo veritiero il senso di straniamento che a volte si può provare in Giappone, il bisogno di ritornare a qualcosa di familiare e l’automatismo di interpretare la realtà paragonando la propria cultura a quella ospitante (peccando talvolta di semplificazione), ve lo propongo così come era stato concepito all’inizio.

Infilo una passeggiata da Yodoyabashi a Shinsaibashi in un momento di sole fra due interminabili piogge. Obiettivo: visionare (almeno in parte) le statue che arredano la Midōsuji e (magari) scoprire qualche tesoro nascosto, un aneddoto, un’emozione, un dettaglio curioso della città. L’umidità che evapora al calore tiepido di mezzogiorno ottura delicatamente i colori e mi infonde calma e determinazione. Mi avvio col mio passo saltellante -ho i piedi piccoli e quando vado veloce mi sembra di trotterellare- e, col senno di poi, con l’attitudine di una che si sta prendendo troppo sul serio.


La collezione conta ventinove statue, esposte su entrambi i lati della strada per la lunghezza di un chilometro e mezzo. La prima è una silhouette minuta in bronzo dorato, lo sguardo rivolto di lato, le braccia incrociate sul petto eun sorriso accennato. La targa riporta: “The Dancer, Venanzo Crocetti, 1992”. La presenza di uno scultore italiano mi sembra un bell’ incipit. Osservo meglio e l’unico dettaglio visibile dell’abbigliamento sono le scarpette da danza, particolare che mi emoziona, data un’infanzia trascorsa a ballare e a bearmi negli odori di body e scarpette. Sulla fioriera a sinistra un’altra targa riporta il codice QR relativo all’opera, per chi volesse approfondire. La seconda statua è più o meno della stessa dimensione, di bronzo più scuro, e rappresenta una giovane contadina in abiti tradizionali, con un cesto di uva in testa. “Girl in Beaujolais, Naoki Tominaga, 1990”. Inquadro il codice QR e scatto un’istantanea della didascalia. Poco più avanti trovo una colonnina che elenca meravigliosamente la disposizione, il nome e il cognome delle opere d’arte (amo questa efficienza nipponica, la cura dei dettagli, l’attenzione a rendere fruibili e accessibili le cose) e mi esalto: mi sembra di trovarmi al posto giusto nel momento giusto, sulla strada verso la scoperta di cose dall’alto valore artistico e intellettuale, come una moderna flâneuse2 del XXI secolo.



La statua numero tre è di un bronzo statuario (cioè verde), “Revelation” di Seiho Hidaka. Più metafisica, una figura antropomorfa, fusione di geometria e curve, una mano che punta verso l’alto, l’altra che va verso il basso. La statua numero quattro si intitola “Bagnante” di Marcello Mascherini (molta Italia, sono lusingata), la statua numero cinque “Ettore e Andromaca” di Giorgio De Chirico.
Un De Chirico sulla Midōsuji, capisci? Lo dicevo “signora mia” che questa passeggiata nascondeva dei tesori! Ma una voce meno ingenua si fa strada dentro di me: «figurati tu se un De Chirico può veramente stare esposto sulla Midōsuji e se non si creerebbe come minimo la coda per la foto», perché, va detto, i giapponesi hanno una tenacia nel fare le file che è pari alla goccia che scava la pietra. Ad una seconda occhiata mi pare proprio di scorgere come un’assenza di vitalità e verità in ciò che ho davanti, e anzi mi convinco che almeno una parte della collezione sia costituita da riproduzioni. L’arte va preservata, cose c’è di male? Anche il David di Michelangelo in Piazza della Signoria è una riproduzione. Eppure…da dove vengo le opere d’arte ti si parano davanti ovunque, mastodontiche statue equestri, affreschi, mosaici, chiese, tutto esposto a sfidare le intemperie, autentico, antico e dall’inestimabile valore. Comincio ad avvertire una certa delusione. Proseguo ancora per poco, incontro qualche autore a me ignoto e poi la “Ballerina” di Botero e un “Torso di donna” di Ossip Zadkine. Ed è qui che il mio entusiasmo da giovane marmotta e neofita “scopritrice d’arte” si spegne definitivamente. Riproduzioni, mi ripeto: piacevoli per carità, divertenti, scelte con gusto, come quando ti metti un poster di Van Gogh nella stanza o ti porti dietro l’agenda con il Bacio di Klimt, ma questa beata e spudorata falsità non trova una collocazione dentro di me. Esplode il contrasto fra le categorie dell’Occidente che mi porto dentro e quelle dell’Oriente che mi ospita. La resistenza della pietra e la necessità di preservarla, contro la caducità del legno e la necessità di ricostruire ogni vent’anni una struttura identica alla precedente ma nuova; il valore di ciò che è antico, il valore di ciò che è riprodotto alla perfezione; l’unicità, la serialità; l’autenticità, la mascherata. Ecco, soprattutto questo gusto per la messa in scena dell’Occidente, nonostante tutte le ragioni storiche che lo significano e lo giustificano, mi delude. Sollevo lo sguardo per capire fino a dove si estende “la finzione”. C’è un grande silenzio. La strada è ampia, gli edifici sono sobri, ma imponenti, identici a quelli di una capitale europea o americana dei primi decenni del ‘900. Comprendo l’intento di fare della Midōsuji, all’epoca a cui risalgono queste costruzioni, un biglietto da visita elegante e all’avanguardia. Impeccabile insomma, ma ai miei occhi, impersonale. A questo punto, piuttosto che sciorinare esterrefatta e inebetita l’elenco delle statue “false” decido di tornare a casa e documentarmi meglio sulla storia della grande arteria.

Il primo dato che trovo è illuminante. La strada, 4 chilometri in lunghezza e 43 in larghezza (una piscina olimpionica e mezzo), arteria principale nella direzione Nord-Sud di Ōsaka, trafficata, chiassosa e via delle grandi firme, fino al 1930 misurava appena 6 metri di larghezza. I lavori di ampliamento durano a lungo. Le rotaie di quella che diventerà la linea metropolitana Midōsuji vengono trasportate dai buoi e la gente si assiepa ovunque a osservare lo spettacolo epocale del mondo bucolico che compie un ultimo titanico sforzo per consegnare alla società il suo successore nel mondo della trazione e ritirarsi poi per sempre in qualche paesaggio pittorico. La Midōsuji per come la vediamo oggi ha appena 90 anni. I movimenti più importanti, come da logica economica, si sono sempre svolti dalla costa verso l’interno dove sorge il castello, e viceversa. La direzione Sud-Nord acquisisce importanza successivamente, nel periodo Meiji (1868-1912), e il quartiere nord di Umeda diventa uno snodo ferroviario e un centro finanziario. Così, in uno spostamento semantico che inventa la tradizione, da essere scritta con i kanji 埋田, cioè campo per la sepoltura, si trasforma in 梅田, campo di pruni3.
Eppure lo sapevo già che il Giappone nella corsa alla modernizzazione di fine Ottocento assorbe quanto più può della scienza e della tecnica dell’Occidente, mentre ne copia le forme architettoniche, per simboleggiare il livello di abilità raggiunto e la sua apertura ai rapporti con il resto del mondo. Lo sapevo già che l’eccellenza del Giappone proviene dalla capacità di «ammettere con genuinità l’altrui maestria» e che l’originalità è un valore occidentale, ma nel pensiero orientale, invece, è una categoria illusoria4. Allora perché ti stupisci, mi chiedo, perché ti ribelli, cosa esattamente non riesci ad apprezzare e accettare di tutto quello che ti sta parlando chiaramente della storia di Ōsaka nell’ambito di processi che hanno coinvolto l’intero Giappone? Non lo so neppure io, ma ciò che normalmente mi diverte, dalle luci a neon di Dotombori allo stile neoclassico della Banca del Giappone a Yodoyabashi, oggi mi disturba. Desidero fortemente entrare in contatto con qualcosa che sia consumato dal tempo e che porti i segni di una tradizione secolare, magari andare a Wakayama, ad aggiungere i passi dei miei piccoli piedi alle strade dei pellegrini. Ōsaka, ma oggi sogno ad occhi aperti qualcosa che raramente mi capita, cioè un piano B: una fuga dalla città.
1. Si tratta in realtà di originali multipli , opere concepite dall’artista stesso con l’intenzione di essere riprodotte in un numero determinato di esemplari (solitamente tra i due e gli otto, ma negli USA la legge permette fino a dodici riproduzioni in qualsiasi mezzo e/o scala). È fondamentale che tutte le copie siano numerate, vidimate e firmate dall’artista, il quale collabora con la fonderia per controllarle e approvarle tramite certificato di garanzia. La differenza rispetto alla riproduzione legale consiste nel fatto che quest’ultima è il lavoro di un artista che riesce a riprodurre alla perfezione un’opera celebre ed è accompagnata da un certificato di falso d’autore.
2. flâneuse è il femminile di flâneur, termine reso famoso da Charles Baudelaire. Indica il gentiluomo che passeggia oziosamente per le strade della città, senza fretta, sperimentando e provando emozioni nell’osservare il paesaggio.
3. I kanji 埋e 梅 condividono la stessa lettura, ume. Il primo deriva dal verbo 埋めるumeru, sotterrare, il secondo, 梅, significa prugna.
4. Il concetto è ripreso dal capitolo iniziale di Wa, la via giapponese dell’armonia di Laura Imai Messina dove sull’originalità si legge: « (…)qualità (…) valutata come primaria nel pensiero occidentale e considerata tuttavia come illusoria in quello orientale, dove è la natura l’unica materia prima, originale, che si offre all’uomo, il quale non può che limitarsi a rielaborarla».
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