I ponti a Ōsaka sono la punteggiatura della città. Una virgola quando li attraversi, dei puntini di sospensione, se rimani al centro a guardare il panorama, due punti, quando scopri cosa c’ è dall’altra parte, una parentesi, se ti soffermi a osservare la gente che passa. Tra questi segni di interpunzione il mio preferito è il Watanabe-bashi, che attraverso sempre di corsa per evitare l’attesa all’incrocio successivo – detesto sostare ai semafori, non faccio in tempo a cominciare un pensiero che vengo interrotta dal verde. Dopo il lavoro lo stesso ponte si trasforma in dei puntini di sospensione: mi appoggio alla balaustra e osservo il riflesso dei grattacieli nell’acqua, a volte più nitido a volte più sfumato, come le cose della vita. Ho già scattato cento fotografie da questo punto. Credo che ne farò ancora.

Nel periodo Edo l’espressione “808 ponti di Naniwa”, antico nome di Ōsaka, indicava simbolicamente la grande quantità di ponti presenti in città. Il detto mi cattura – riesco a vedere la città del passato attraversata dalle barche, dai carri carichi di merci e dal vociare della gente- ma c’è anche un’altra ragione per cui mi colpisce, ed è che tutti i ponti mi affascinano. Quando ne incontro uno provo uno strano batticuore, come se mi trovassi in un momento della vita in cui si produrrà un cambiamento. Così stamattina mi regalo una passeggiata a caccia di ponti: da Sakuranomiya al Kyocera Dome, sette chilometri lungo l’Ōkawa, il canale scavato agli inizi del Novecento per deviare lo Yodogawa ed evitarne le esondazioni. Ecco un breve resoconto dell’esplorazione:
Ritrovo cose a me care: la Crystal Tower, silenziosa come una montagna, il giardino di rose della Nakanoshima, i ciliegi lungo il fiume – la sola vista dei rami, anche se spogli, mi fa tornare in mente la primavera.
Familiarizzo con la forma dei lampioni del Temma e del Tenjin-bashi.
Prendo atto delle dimensioni dei leoni di pietra del Naniwa-bashi (ne sollevo uno mentalmente e immagino di restarne schiacciata).
Comprendo fino in fondo quanto la mia rappresentazione della città sia parziale. Ōsaka assomiglia a una luna calante i cui contorni ovest, frastagliati dalle nuvole, si bagnano in mare. Sugli altri tre lati ci sono le catene montuose Hokusetsu (Nord), Ikoma e Kinsetsu (Est), Wakayama (Sud). La “mia” Ōsaka invece sta all’interno della kanjosen, la linea circolare della JR, ed è limitata a Sud dall’ Abiko-suji – strada che passa vicino all’Abeno Harukas – a Ovest dalla Yotsubashi-suji – dove sta una fontanella a me cara – a Nord da Nakatsu – dove frequento un ristorante italiano- e a Est dalla Imazato-suji, dove ho abitato. Da questo quadrilatero, si ramificano alcune strade rettilinee circondate da cose indistinte che portano a zone circoscritte, visitate per caso negli anni.

Se tornassi a Ōsaka solo per un giorno, rifarei la stessa passeggiata, poi raggiungerei Shinsaibashi in metropolitana e andrei a piedi fino Namba. Potrei così rivivere gli aspetti della città che più amo: la natura dentro la metropoli, per rallentare il ritmo, i ponti, da attraversare solo per il gusto di vedere come cambia la prospettiva, la velocità delle strade che saettano sospese fra i grattacieli, le arcate sotto cui si susseguono negozi all’infinito e si respira lo spirito commerciale del luogo. Sopra ogni altra cosa la presenza dell’acqua e la sua capacità di riflettere ciò che le sta intorno. Di vederlo, moltiplicarlo, capovolgerlo. Raccontarlo.