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Abeno Harukas, abbracciare la città

Gli eventi “hanno luogo”, hanno cioè un ambiente che fa loro da sfondo, non sarebbe possibile diversamente.

Che cos’ è un luogo? Me lo domando da quando ho iniziato a scrivere. È la sua forma, la storia che lo contraddistingue, i simboli che lo rappresentano, le consuetudini che lo caratterizzano? O è la somma di tutte queste cose? C’ è il territorio neutrale per così dire (ma mi domando se esista veramente) in tutti i suoi viali, viottoli, buchi, vasi, crepe e anfratti, e poi c’è un “altro luogo” che è uguale, ma è diverso, poichè si carica degli avvenimenti e si trasforma in base all’agire e interagire degli uomini. Un luogo fatto di vite e di occhi, territorio cangiante, riflesso in migliaia di specchi mentali e in migliaia di immagini parziali, uno spazio che è nello stesso istante enorme, caotico, vitale, quieto, incommensurabile, misurabile, bellissimo, sgraziato, invisibile, abbagliante, in una parola rappresentabile all’infinito: Namba, Dotombori, Amemura, Shinsekai, Dendentown, Nakanoshima, Nakazachicho, Umeda, Karahori, Osakajo, Tennoji, «Abeno Harukas, Nihon ichi takai»1, ripete più volte il testimone dello sposo.

Il mio rapporto con Abeno Harukas mi sembra venire da lontano. L’ edificio in verità è stato costruito di recente, ma ho l’impressione che ci sia sempre stato, forse perchè è diventato la stella polare dei miei giri in bicicletta. Il cuore carico di emozione, ma il senso dell’orientamento di una talpa, mi avventuro per possibili scorciatoie e strade inesplorate e, se mi perdo, so di poter contare su di lui: ago della mia bussola, faro nella notte, elegante e discreto uomo d’affari di giorno, donna in abito da sera al calare del sole. Un incastro di volumi, pendenze e colori che cambiano a seconda della prospettiva e delle ore, un edificio che comunica con l’ambiente circostante e canta.

Posso sentire la sua voce estendersi sul quartiere che sovrasta, posso sentirlo dialogare con i suoi fratelli a Namba e sulla Midosuji, e ancora più in là con i suoi cugini a nord nella Nakanoshima e a Umeda. Abeno Harukas, per me pura poesia, è, secondo il mio capo, «una creatura mostruosa frutto di una mente distorta». «A volte lo guardo dal balcone di casa mia e penso: ma è orrendo! Cioè un mostro! Ma come si fa? È troppo grande, è troppo alto» dice. Immagino sia l’effetto che possa fare a chi è vissuto circondato dalle montagne, ma io del resto sono una “ragazza” del Tavoliere con una passione sfegatata per l’architettura contemporanea.

Il giorno in cui salgo sull’ osservatorio “Harukas 300” sono appunto in compagnia del capo. Avviene in modo fortuito, un po’ come accade nella vita quando incontri qualcuno che te la cambia in un giorno come tanti, ma che nella memoria diventerà speciale. Ti svegli al mattino, guardi l’agenda, ti prepari, esci per andare al lavoro, a scuola, al supermercato. Vorresti che accadesse qualcosa di diverso, ma poi la sera torni a casa con un nulla di fatto. E i giorni si susseguono uguali finché, semplicemente, smetti di sperare. Dunque solita routine. Sono a Osaka e sto assistendo da circa un’ora ad una riunione ai piani alti dell’Abeno Harukas. «Wow» dico a me stessa, «guarda dove sei arrivata», anche se ahimè è solo un tentativo di convincermi che sia tutto magnifico, perché in verità sto assistendo ad un incontro che ha l’ aria di non andare da nessuna parte. Si parla di un evento da organizzare, di ospiti da invitare, di possibili collaborazioni da iniziare, c’è tanta carne al fuoco , ma probabilemte gli interessi delle parti non coincidono. Dico probabilmente perché nulla è chiaramente esplicitato secondo le regole e la perfetta armonia di Yamato2. Come diversivo ho affibbiato un nomignolo ai quattro manager presenti: il padre di Harry Potter senza occhiali, Massimo Boldi, lo sposo napoletano e il testimone dello sposo. Sposo e testimone indossano versioni diverse della triade gessato, impompato, lamapadato. Too much! Giro di tavolo di prammatica corredato da bigliettini da visita, inchini, imbarazzi e sorrisetti. Ci manca la geisha che serve il té e potremmo essere in un film americano.

Lo dico a scanso di equivoci, non è che non ami il mio lavoro e non apprezzi l’ enorme fortuna di trovarmi qui, al trentaseiesimo piano dell’edificio più alto del Giappone, progettato da César Pelli, inaugurato nel 2014 e di proprietà della Kintestu Kabushikaisha (alias s.p.a.), ma l’ ordine del giorno e ciò di cui mi occupo non sono esattamente collegati, cosa che mi rende una spettatrice non funzionale al tutto, più o meno come un soprammobile che raccoglie polvere. Così, col passare dei minuti, mi ritrovo a vivere una sorta di esperienza extracorporea: da un lato annuisco e prendo appunti, dall’altro comincio a galleggiare nell’aria fino ad arrivare al soffitto, e da lì contemplo lo strano spettacolo di questi otto tizi seduti intorno ad un tavolo a lavorare (in un giorno di festa nazionale, sacrificato al riposo e agli affetti!) in quel modo “sovrabbondante” che sempre più mi appare una prerogativa del Giappone. Tuttavia ho alcuni buoni motivi per non lasciarmi demoralizzare: tra qualche giorno sarò in ferie (e seduta qui a non far niente un po’ è come se lo fossi) e al termine della riunione ci è stato promesso il tour dell’edificio (che avrei potuto fare già diverse volte, ma si sa, quando una cosa è a portata di mano si finisce per non approfittarne). Inaspettatamente, allo scoccare di un segnale imprecettibile all’occhio occidentale, la riunione termina e la mente, che passeggiava libera nelle praterie del fantastico, viene ricatapultata nel corpo e inizia a scodinzolare come un cane alla vista del guinzaglio. Partiamo per ascensori, disimpegni, corridoi, scale mobili, fiera dell’Hokkaido (si svolge due volte all’anno, se siete interessati), giardino pensile (bruttino, signori miei!), foto di rito e, ciliegina sulla torta, ingresso gratuito all’osservatorio! Ho già iniziato a scrivere di Osaka da qualche settimana, quando i nostri ciceroni ci mettono in mano il biglietto di ingresso, e mentre le parole del testimone dello sposo, «Nihon ichi takai», si affievoliscono alle nostre spalle, vado incontro all’inattesa fortuna di osservare la città da un nuovo punto di vista.

Alcune signorine gentili ci accolgono ai tornelli, appoggio del QR code sul lettore ottico, breve attesa agli ascensori. Entriamo, una vocina ci informa che le luci si spegneranno, tranne una proiezione luminosa alla nostra spalle che ci accompagnerà fino al sessantaseiesimo piano. Tre, due, uno: decollo! Buio, si sale, leggero vuoto nello stomaco, puntini luminosi che scorrono veloci, atterraggio: quarantacinque secondi netti (adoro gli ascensori giapponesi, meriterebbero un pezzo solo per loro). Intanto, a giudicare dall’espressione incredula e annoiata del mio capo devo avere la faccia di una bambina davanti a una torta al cioccolato, mentre lui non potrebbe trovare l’ascesa alla terrazza panoramica del “mostro” una perdita di tempo, una noia e un obbrobrio peggiori. Non provo neanche a trasmettergli le ragioni del mio entusiasmo e zompetto subito verso le vetrate. Mi pare che resti un po’ indietro a domandarsi, forse, cosa abbia fatto di male per trovarsi costretto a visitare l’ edificio che più di tutti rappresenta la bruttezza della città, l’insignificanza della sua urbanistica e l’ assenza di bellezza naturale.

Poi all’improvviso non avverto più la presenza degli altri accanto a me, ma solo la luce del giorno e Ōsaka ai miei piedi. Dietro l’immensa vetrata la città ha perso il sonoro e, attutiti tutti i rumori, è diventata una scena a rallentatore, quasi uno scatto fotografico che la immortala nel tempo mentre già sta cambiando. «Fermati» dice. «E adesso guardami.» Avvolta in una leggera foschia è una distesa sterminata di casette e palazzine, che vira dai toni freddi del grigio azzurro a quelli bruni, ferrosi e un po’ giallini delle gouache di Ricci e Iorio3: un paesone di tetti e tettucci con qualche vetta a Umeda, “gli 808 ponti”4 sui canali, lo Yodogawa, lo Tsutenkaku5, la loop line, il Kyocera Dome, il porto e alcuni curiosi raccordi stradali che serpeggiano a perdita d’occhio come piste di macchinine tra i palazzi . Una metropoli accucciata davanti a me, immensa, ma a misura d’uomo.

Chissà quante volte qualcuno da quassù avrà puntato lo sguardo nella mia direzione, e chissà quante vite adesso ad ogni piano, dietro ad ogni finestra e nel sottosuolo. Il panorama in sé non è assolutamente paragonabile a quello da capogiro del Tōkyō Metropolitan Government, dove ovunque si stagliano avvenieristici dinosauri high-tech firmati da grandi architetti, e non è nemmeno paragonabile a quello più elegante dello Sky Building di Kita Umeda. Lo spettacolo da quassù in verità è assai più modesto, nonostante i 1500 yen che il visitatore spende per l’ingresso, ma offre un vantaggio non indifferente: a trecento metri dal suolo nulla sbarra la visuale e finalmente è come se i miei occhi possedessero la città intera e potessi abbracciarla tutta in una volta sola. Non avrò mai il tempo per esplorarla completamente, così com’è fatta di quartieri uno simile all’altro, da case su case, da città nella città, dentro, sopra e sotto la città stessa. Non è bella la mia Ōsaka, eppure, proprio mentre la osservo nel suo essere un’accozzaglia di ediliza civile, con poco verde e tanto cemento, posso dire di avere ancora più voglia di immergermi nella sua vita, perché “a Ōsaka non c’è niente”, ma è un niente talmente pieno che ne potrei parlare all’infinito. Perché questa città, più che dall’altro, va vissuta dal basso e dal di dentro.

1. Nihon ichi takai, il più alto del Giappone.

2. Yamato è l’antico nome del Giappone.

3. Roberto Ricci e Laura Iorio sono due illustratori e graphic novelist italiani, famosi per aver vinto il secondo premio alla decima edizione dell’ International Manga Award con l’opera Il cuore dell’ombra.

4. Naniwa-kyo è il nome di un`antica capitale che sorgeva nei pressi della parte centrale di Osaka e “gli 808 ponti di Naniwa” è un’espressione del periodo Edo che indicava metaforicamente la grande quantità di ponti presenti in città. (fonte Ministero dei Trasporti del Giappone)

5. La torre dello Tsutenkaku (che può essere tradotto come la strada attraverso il cielo) è uno dei simboli della città. Costruita per la prima volta nel 1912 sul modello della Tour Eifell, misurava 64 metri ed era all’ epoca il secondo edificio più alto dell’ Asia. La torre attuale, ricostruita nel 1956, misura 103 metri. (fonte Osaka station)

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