Le forme di vita “invisibili agli occhi” sono tante quante le stelle. Alcune si trovano in posti irraggiungibili come le profondità dell’oceano, altre sono talmente piccole che non riusciamo a distinguerne la presenza; sappiamo che esistono grazie agli studi, alla tecnologia, alle immagini, ma non ne faremo esperienza diretta in tutta una vita. Un’altra parte di ciò che abita il Pianeta è visibile, ma solo in certi luoghi e stagioni, o in determinati momenti del giorno; nel resto del tempo abita altrove, oppure si nasconde per poter sopravvivere. In città, ciò di cui parlo, sono soprattutto i topi, che d’inverno di tanto in tanto si sentono correre sui tetti, e le blatte, che brulicano d’estate; in giapponese nezumi (topi) e gokiburi (scarafaggi), due parole casualmente assonanti, che rimangono subito impresse come il ribrezzo per le creature a cui rimandano. Ci sono interi quartieri a Ōsaka fatti di vecchie case addossate le une alle altre e divise a malapena da intercapedini strettissime, dove la gente convive con il fatto che a un certo punto dell’anno qualcuno di questi animali farà la sua comparsa. Non è raro infatti sentire discorsi del tipo: «Ogni volta che arriva il caldo devo posizionare delle trappole», oppure, «ieri sera c’era un topo così grosso sul tetto che mi sono svegliato per il rumore. Pensavo di averlo in casa!» Potrà sembrare strano per una realtà avanzata e opulenta come il Giappone del 2020, ma la scomoda convivenza non è tanto un fatto di reddito e condizioni igieniche, quanto di urbanistica. Del resto i topi e gli scarafaggi sono democratici per natura, popolano New York quanto Roma e perché no, anche Ōsaka.

Nel mio quartiere – Ikunoku – c’è poi una presenza più inattesa, un lampo senza luce che saetta dopo il tramonto e lascia di stucco chi lo intravede. Fugace, inafferrabile, curioso, si tratta di un gruppo di furetti giunti misteriosamente a popolare una zona che fino a quindici anni fa ne era priva. A sera, li si vede spesso mentre si tuffano ad attraversare le strade come minuscole comete che scompaiono subito all’orizzonte. Non stupisce che per il folclore si spostino cavalcando folate di vento e che con gli artigli affilati feriscano le gambe dei passanti ignari1. Gli itachi infatti, cioè furetti, ermellini, donnole, puzzole e loro affini, rientrano nella schiera degli yōkai (妖怪), spiriti dotati di poteri soprannaturali potenzialmente in grado di nuocere all’uomo. Dello stesso gruppo fanno parte anche le volpi, i tassi, i procioni e altre creature fantastiche come i kappa, tutti animali selvatici che sfuggono alla sfera di appartenenza dell’uomo e occupano il territorio incolto al di là del villaggio, che è luogo del divino ma anche del temibile. Al giorno d’oggi, naturalmente, nessuno presta più molta attenzione a queste credenze e i furetti di Ikunoku si riproducono liberi nello spazio liminale fra ciò che è visibile e ciò che non lo è. Eppure, come dimostra la vicenda che sto per raccontarvi, le leggende contengono sempre una parte di verità.
Nella scorsa primavera accadono due cose: il mondo intero viene sovvertito da un virus – un’altra creatura invisibile, evidentemente proveniente dal mondo degli yōkai – e quasi nello stesso periodo adotto un gattino, Kuma-chan , “orsetto” – da kuma, orso e chan suffisso per i nomi dei bambini. Con la comparsa del cucciolo, un rappresentante della banda dei furetti, da sempre sfuggente e schiva, si spinge a fare le presentazioni. La prima volta accade ai giardinetti dietro casa. Improvvisamente il gatto si lancia all’inseguimento di qualcosa e subito dopo compare un furetto che corre all’impazzata sul cornicione, si appiatta, sbuca, scompare, riappare. È fulvo, col musetto bruno e lo sguardo spaventato e confuso. In più di un momento temo che Kuma stia per sferrare l’attacco e, per evitare la cosa, lo acciuffo e lo riporto in casa. Nelle settimane che seguono, quando il gatto è fuori “a fare la ronda”, mi sento in apprensione per il furetto e spero tanto che se ne stia lontano, finché, rivedendoli insieme, scopro che hanno fatto amicizia! Il furetto sbuca a pochi centimetri dal gatto, provoca, si fa rincorrere, fugge infingardo. Lo osservo meglio, sarà lungo a malapena 30 centimetri, è leggero, scattante, ma soprattutto ha lo sguardo vispo dell’animale curioso e furbo che sa benissimo come beffarti. Forse potrebbe graffiare e trasmettere qualche malattia, ma la scena è talmente divertente che resto a godermela.
Ciò che avviene poco tempo dopo è ancora più sorprendente. Una sera, al rientro dal lavoro, trovo “la strana coppia” che si rincorre per le scale. Inizio a urlare dalla gioia: « Il furetto è in casa! Il furetto è in casa!» «Dove, dove?» fa la coinquilina. Chiudo al volo la gattaiola e per qualche minuto è tutto un trambusto di zampe e di piedi. Il furetto saetta in salotto, schizza dietro un paravento, sbuca in corridoio, vola per le scale, il gatto lo insegue, noi li rincorriamo. Alla fine il povero animale, sentendosi braccato, fa l’unica cosa che sa fare, cioè liberare la sua arma chimica.
All’istante è come se un esercito di cipolle crude e stufate si materializzasse in casa. Mi schiaccio una mano sul naso e corro ad aprire l’uscita che malauguratamente avevo chiuso, me sprovveduta, in un’idea infantile di giochi fra animali. Mi appare l’immagine del libro di scienze alla pagina “classificazione delle specie”. Furetto: classe, mammalia; odine, carnivora; sottordine, caniformia; famiglia, mustelidae – carnivori di medie e piccole dimensioni, dal pelame folto, corpo allungato, arti bassi e ghiandole anali capaci di produrre sostanze odorose usate in caso di pericolo. Madre natura! Questa non è un sostanza odorosa, questa è un’arma di sterminio di massa! Spalanchiamo tutte le porte e le finestre, ma la pestilenza è tenace e non accenna ad andarsene per almeno trenta minuti. Nei giorni successivi, noi abitanti della “casa-villaggio” ricostruiamo a più riprese l’incontro fugace che in pochi attimi ci ha lasciato tramortiti, il furetto invece, tornato a ricongiungersi alla sua banda, interrompe completamente le visite. Facile, in altri tempi, pensare che si trattasse di uno yōkai.
- La leggenda risale ad alcune regioni montuose del Giappone. Si dice che quando una ferita a forma di falce appare improvvisamente sulla pelle sia opera del kamaitachi (donnola con le falci).
per fortuna non era una puzzola !
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