Negli anni ‘90 Marc Augé introduceva il concetto di “nonluogo” per descrivere le strutture e le infrastrutture che nulla conservano dell’identità del territorio in cui sorgono, come ad esempio i centri commerciali, gli aeroporti, le autostrade e i parchi a tema. Se penso a Ōsaka, così come a molte città giapponesi, direi che la definizione le calza a pennello. L’ho passata al setaccio migliaia di volte, interrogando asfalto, cemento, insegne, semafori, tombini, persone, animali, piante e piantine. Mi sono documentata, compiendo l’enorme sforzo della traversata a remi nella lingua giapponese, e ho cercato qualcosa di autentico nelle sue strade, ma sono giunta spesso alla conclusione che la tradizione permane, certo, ma più nell’atmosfera che nel volto. L’ho ripetuto ormai abbondantemente, di antico resta pochissimo, praticamente solo frammenti. Qualche tempio nascosto fra i grattacieli, qualche incrocio di vie racchiuso fra le grandi arterie e qualche raro miracolo, come Nakazakichō 中崎町, il piccolo quartiere, a pochi passi dalla stazione centrale, inspiegabilmente (o quasi) scampato ai bombardamenti e all’azione delle ruspe.

Passeggiando per le sue stradine si avverte quel cambio di ritmo che impone e riserva ogni borgo. Botteghe di artigianato, piccoli caffè, casette di epoca Meiji abbellite da fioriere, abitazioni tradizionali che accolgono accessori e arredamenti rétro provenienti dal Giappone e dal mondo. E poi quiete, quiete per gli occhi, quiete per le orecchie. Mi sento orgogliosa di non essermi arresa alla superficie e di conoscere anche questa parte di Ōsaka, vorrei mostrarla a tutti, eppure me ne sento gelosa, come se qualcuno potesse portarmela via. Forse è per questo che decido di parlarne solo adesso o forse, a pensarci bene, è stata Silvia a fare scattare la molla. Silvia, che nove anni fa ha scommesso su Nakazakichō e ha aperto un ristorante di cucina italiana proprio nel cuore del quartiere1.

Ogni tanto vado a trovarla e mi faccio ripetere la sua storia coraggiosa, perché di fegato, o di incoscienza, come dice lei, ce ne vogliono tanti per mettersi in proprio a 23 anni in un Paese straniero. «Perché proprio qui?» «Perché l’affitto era basso e conoscevo il proprietario.» «Già, ma perché gli affitti sono così bassi? La zona è carina.» «Beh adesso l’hanno rimessa a posto, ma questa era un’area di burakumin.» La parola mi cade addosso come un’accetta. Burakumin 部落民? I fuori casta, gli impuri associati al sangue e alla morte perché dediti alla macellazione degli animali o alla conciatura delle pelli, perciò allontanati dal resto della società, esattamente come tutte le cose e le persone che per questioni igieniche e religiose lo scintoismo separa dal tempio, dalla casa, dalla vista. Adesso mi spiego certi sguardi schivi, l’aria popolare che si respira sotto il fascino del quartiere d’arte, la ritrosia di alcuni gestori che non vogliono foto. Dunque è questa Nakazakichō, una storia nella storia, dalla ghettizzazione alla riabilitazione2.

La riabilitazione, scopro, è recente e comincia negli anni 2000, quando l’artista e ballerino Jun Amanto 純 天人 trasforma un’antica casa popolare in un caffè per artisti, il Salon de AManTo. In seguito, grazie alla collaborazione di altri colleghi, il progetto si estende alle case vicine, finché Nakazakichō diventa un punto di riferimento per la comunità degli hipster e degli artisti locali.


La storia della discriminazione invece riguarda tutto il Giappone ed è antica, anche se la vera e propria ghettizzazione risale al periodo Tokugawa (1603 -1868), epoca in cui la società è divisa in classi rigide e lo scorrimento sociale, come i cambi di professione, sono vietati. La discriminazione è talmente forte che i burakumin vengono considerati “non umani” e per questo non sono censiti, tuttavia si stima che intorno alla metà del diciannovesimo secolo siano relativamente numerosi e organizzati in comunità autonome.
La loro condizione peggiora con l’inizio dell’era moderna, quando la restaurazione Meiji (1868 – 1912) abolisce le caste e li reintegra nel sistema fiscale. Adesso, sulla carta, sono esseri umani, in altre parole contribuenti, ma il governo non si preoccupa di reinserirli socialmente e di fatto restano dei reietti. Indipendentemente dalla loro occupazione infatti la discendenza pesa su queste persone come un marchio indelebile, al punto che nessuno desidera assumerli o sposarli e viene loro proibito di mettersi in proprio.


Il burakumin mondai 部落民問題, il problema dei burakumin, attraversa tutto il ‘900 ed è di difficile soluzione, come dimostrano i fatti del ’75. In quell’anno si scopre che in tutto il Paese sono in vendita copie di un libro, scritto a mano, dal titolo Tokushu buraku chimei sōkan (特殊部落地名総鑑 Lista comprensiva dei nomi delle aree buraku) che grandi aziende e privati usano per decidere se assumere o meno un dipendente. Questo nonostante i lunghi anni di battaglie per sensibilizzare la popolazione e i governi, e l’emanazione nel 1965 della Dōwa taisaku tokubetsu sochihō 同和対策特別措置法 (Legge sulle misure speciali per i progetti di assimilazione), che prevede tre tipi di interventi: creazione di infrastrutture negli ex ghetti, erogazione di sussidi e progetti legati all’educazione scolastica per i figli dei burakumin. L’incidente mette in luce anche un altro aspetto del problema e cioè il fatto che la discriminazione non tocca solo i figlie e i nipoti degli ex fuori casta, ma si estende a coloro che abitano nella stessa area. Ciò spiega perché il sistema dei sussidi continui fino quasi all’epoca contemporanea (2002), momento in cui, almeno per quanto riguarda Ōsaka, la storia si ricongiunge all’azione di riabilitazione e valorizzazione di Jun Amanto.

La prima volta che mi imbatto nel Salone da lui fondato lo trovo bizzarro, ma estremamente affascinante. L’esterno è completamente rivestito dall’edera e l’interno ha l’aria di una serra nella quale è stato improvvisato un salotto. Tutti i materiali sono di risulta : vecchie assi di legno, cuscini sbiaditi, tavolini giapponesi, tavolini di vetro, poltrone da ufficio di pelle lisa, libri ingialliti, specchi corrosi. Mi stupisce che qualcuno sia riuscito ad accostarli fra loro in modo armonioso e ancor più mi sorprende il fatto che un locale tanto insolito sia una caffetteria. In quel momento non posso sapere che questa apparenza eccentrica è in realtà una forma d’arte, un modo per restituire dignità a ciò che per secoli è stato considerato abbietto.


Ho passeggiato spesso per Nakazakichō come in un sogno, innamorata della sua personalità, del suo essere un “luogo” in un mare di “nonluoghi”. Adesso però tutto ha assunto un colore diverso. Cammino cercando nei volti e nelle abitazioni un altro tipo di passato, cammino riducendo al minimo la mia presenza per non arrecare disturbo. E passo dopo passo, maturo la decisione di raccontare questa storia, per quanto scomoda sia, perché Nakazakichō e la sua gente meritano di certo una visita. Indiscutibilmente il rispetto3.

NOTE
1. Il ristorante di Silvia è “La lanterna di Genova” un locale rustico che serve cucina italiana e specialità liguri.
2. Oltre allo scintoismo anche nel buddismo ciò che riguarda l’uccisione e la morte è considerato impuro, perciò storicamente i lavori socialmente utili, ma considerati indesiderabili – come la macellazione degli animali e la tumulazione dei cadaveri – furono affidati ai meno abbienti, che vivevano già ai margini della società, e furono concentrati in determinate aree delle zone abitate. Coloro che svolgevano questi “lavori indesiderabili” erano considerati eta, impuri, mentre parallelamente persone dedite ad altre professioni, come le prostitute e gli artisti girovaghi erano considerati hinin, non umani. Il termine burakumin 部落民, cioè semplicemente “abitante del villaggio”, risale al ‘900.
3. Normalmente non cito le fonti dei miei articoli perché non si tratta di pubblicazioni accademiche. Tuttavia, nel caso di un tema delicato e controverso come questo ritengo sia necessario farlo. Tra i materiali video consultati segnalo in particolare il filmato dedicato a Nakazakichō del Kanagawa ken jinken keihatsu sentā (Centro di sensibilizzazione sui diritti umani di Kanagawa). Tra le pubblicazioni accademiche i due articoli di riferimento sono: 1) Su-Ian Rebe E.A., Buraku Mondai in Japan: Historical and Modern Perspectives and Directions for the Future, in “Harvard Human Rights Journal” Vol. 12, 1999, p. 297 – 359 2) Gordon J. A., Caste in Japan: the Burakumin, in “Biography”, Vol. 40, No. 1, Caste and Life Narratives (winter 2017), pp. 265-287 su JSTOR
Secondo l’articolo pubblicato dalla Gordon nel 2017 la ferita sociale dei burakumin è ancora in parte aperta, non ci sono statistiche attendibili circa il numero dei discendenti delle famiglie dei ghetti né sulle possibili discriminazioni che ancora subiscono. L’ argomento è considerato tutt’ora tabù e le ricerche e le pubblicazioni sul tema in Giappone vengono ostacolate.
Articolo bellissimo, la dolcezza dei paesaggi, l’intensità degli angoli ritratti in foto, la cultura immensa legata al buddismo… ❤❤❤❤
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Bellissimo articolo. Interessante per tutto ciò che spiega. Accattivante per le splendide foto. Fa venire veramente il desiderio di venire di persona e calarsi tra case piante oggetti atmosfere. Grazie.
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Grazie per il bel commento!
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Molto bello questo tuo post, sei riuscita a farmi vivere e amare questo quartiere. Comprendo la tua titubanza a scriverne, perché si vorrebbe scrivere sempre cose meravigliose di questa terra speciale. Purtroppo esistono ancora tanti quartieri di ex burakumin che non hanno avuto la fortuna di essere valorizzati come Nakazakichō. E esistono delle persone che parlano pronunciando “burakumin” con un sussurro, non so se per vergogna della tanta e lunga discriminazione inflitta o perché cercano di prenderne le distanze.
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Si, è vero che c’è riluttanza nell’usare questo termine e mai vorrei parlare in modo superficiale del Giappone, né in senso negativo, né in senso positivo. Il tuo commento mi fa pensare di esserci un po’ riuscita e ne sono felice. Per altro trovo i tuoi articoli sempre molto accurati e un’ottima fonte per conoscere questo “piccolo grande Giappone” 🙂
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